Appunti e testimonianze sulla scena skinhead,
dalla metà degli anni ’80 al nuovo millennio
Vorrei iniziare da ciò che mi è mancato leggendo “Italia
Skins”, ovvero la musica. Non quella suonata, abbondantemente e storicamente
trattata con dovizia di particolari nella prima parte del testo, ma di quella
ascoltata. Mi sarebbe piaciuto infatti, visto l’enorme bagaglio musicale di cui
la cultura skin dispone, una panoramica storica anche in questo senso, attingendo
dai capolavori della musica black ’60 e dintorni caratterizzante il culto
skinhead.
Altro elemento che ho trovato deficitario, ma è sinceramente
l’ultimo, sono le molte parole, frasi, pagine, secondo me ripetitive, impiegate
per spiegare la non attinenza e consequenzialità tra skinheads e neonazismo. La
seconda parte del libro infatti è infarcita da dichiarazioni, documenti e prese
di posizione tutte su questo argomento, quasi ci fosse una sorta di ossessione
da parte dell’autore nel voler riportare il culto alla purezza delle origini e
liquidando, forse anche un po’ semplicisticamente, l’infiltrazione che la
destra radicale ottenne all’interno del movimento dalla metà degli anni ’80 in
avanti. Tutti i documenti riconducibili alle esperienze “SHARP” e “RASH” vanno
infatti in questa direzione e, almeno per i gusti di chi scrive, cadono spesso
nel ripetitivo.
Detto quanto sopra il libro mi è piaciuto, è scritto con
cuore ed emozione ma anche con una bella esposizione dialettica e con molte
fonti documentate e pertinenti alla ricostruzione del percorso storico del
movimento skin dagli anni ottanta agli albori del nuovo millennio.
Soprattutto la prima parte è interessantissima da questo
punto di vista con l’analisi delle vicende, dei personaggi, delle bands che
accompagnarono il culto durante gli anni ottanta. Ska, punk, hardcore ed Oi!
contestualizzati e localizzati all’interno della penisola per una mappatura
veramente appagante e ricca di aneddoti curiosamente gustosi.
La sorpresa più interessante di “Italia Skins” arriva però
dalle interviste che Flavio Frezza ha fatto, in giro per tutto lo stivale, a
rappresentanti più o meno “famosi” e più o meno “autorevoli” della sottocultura skinhead italiana.
Qui la lettura si è fatta spassosa ed i toni ed i ritmi del
discorso sono variati e resi molto confidenziali dai personaggi intervistati.
Ecco infatti affrontare tematiche specifiche della sottocultura skins come lo
stile dell’abbigliamento, la musica, lo stadio, il rapporto con la politica,
l’identificazione o meno con il culto originale del ’69. Ma ciò che mi ha
colpito maggiormente da questo insieme di chiacchierate tra amici e fratelli è
stato l’aver affrontato la tematica della sottocultura come aspetto o meno
dell’universo adolescenziale prima e giovanile poi, il chiedere ed il chiedersi
cosa voleva dire essere skinhead a 20 anni e che cosa rappresenta il culto
oggi. Naturalmente i punti di vista sono disparati e tutti condivisibili ma la
tanta carne al fuoco non stanca ed, anzi, la voglia di aneddoti, storie e punti
di vista cresce di pagina in pagina.
Concludo nell’auspicare la lettura di questo testo sia a chi
conosce, o appartiene, al movimento skinhead ma anche, o forse soprattutto, a
chi ne è lontano ed ha sempre liquidato questa sottocultura relegandola
(soltanto) a fenomeno post adolescenziale per teppistelli da stadio.
|mig|
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