LA STORIA DEI CRASS di G.Berger

 


Il punk è morto. Anarchia per te.

(book edizioni Shake, anno 2010 pag. 223)


“They say we’re trash, well the name is Crass, not Clash”

 

Ensemble punk, collettivo anarchico, fucina multiculturale ed artistica, i Crass nascono nell’Essex, in Gran Bretagna, nel 1977 e sono testimoni viventi dell’essere punk come metodologia nel quotidiano, come attitudine di vita più che come fenomeno musicale.

Questo libro di George Berger attraversa l’epopea degli alfieri del “do it yourself” raccontando le gesta eroiche della band attraverso le parole, i ricordi, gli aneddoti dei protagonisti.

Il punto è che la storia dei Crass è racconto militante, è il tentativo consapevole di dare spazio, consistenza, colore a parole come punk, anarchia, pacifismo, antirazzismo e via discorrendo sino a creare un totem indistruttibile chiamato anarcho-punk.

La band infatti è solo una componente della storia che si muove tra proclami e manifestazioni, tra happening e arte visionaria, tra rivendicazioni politiche e vita comunitaria, tra il rifiuto totale del music-business e la linfa vitale scaturita dal portare avanti un’etichetta “simbolo” come la Crass records.

“La Storia dei Crass” ha un solo difetto, almeno per chi scrive, che consiste nell’aver dato spazio ridotto all’immane e gustosissima produzione grafica dei nostri, sia che parliamo di volantini, flyer, magazines, locandine o vere e proprie opere d’arte. Le pagine sono molte e ne sono consapevole ma la produzione grafica dei Crass è iconografica. Il loro modo di raccontarsi attraverso le immagini ha la medesima importanza, se non superiore, alla musica che hanno prodotto ed ai testi che hanno partorito ed io avrei dato molta più consistenza a questo aspetto anche perché, negli anni, è diventato un vero e proprio “stile” rappresentante l’anarcho-punk.

Parentesi sulle immagini a parte, il testo è bellissimo. Quasi un documentario battuto a macchina, un viaggio, uno spaccato visionario ma consapevole nell’Inghilterra degli anni ’80, quelli della Thatcher, visti con gli occhi posizionati dall’altra parte della barricata.

Dietro la barricata però c’era la voglia di viverla e viversi sino in fondo, c’era la musica, i concerti, le comuni, gli spazi occupati, l’autogestione, l’autoproduzione, c’era il rifiuto dei un mondo basato sull’arrivismo, sullo yuppismo, sulla logica del denaro.

Può un libro di oltre 200 pagine essere letto tutto di un fiato? A me è successo e, tolte alcune decine dedicate al passato hippie di un paio di protagonisti, prima tra tutti Gee Vaucher, scorrono via anche troppo in fretta e quando arrivi in fondo e scruti la bibliografia ti vien voglia di approfondire e non credo sia cosa di tutti i giorni.

Sono le pagine relative alla “Dial House”, il ritrovo appena fuori Londra che divenne piano piano una vera e propria comune anarchica, che mi hanno colpito al cuore, sono l’immaginario descrittivo delle opere di Gee che mi hanno spinto ad approfondire il suo percorso creativo ed a farmi innamorare delle sue opere, sono le descrizioni di Penny che mi hanno catapultato in anni ostici, crudi, metallici ma pieni di gente che si dava da fare per cambiare le cose, sono le parole di Steve, tra l’altro ancora in giro a suonare anche di questi tempi, che mi hanno ricondotto alla musica dei nostri, al rumorismo, al cut-up, alle ritmiche tribali miste al power punk, ai cerchi di fuoco, talvolta al limite del digeribile, che urlavano la voglia di abbracciare il mondo a prescindere dal mezzo e dal linguaggio usato.

Penso che valga la pena leggere questo testo, e poco dopo approfondire, guardare il “girato”, ammirare i collages, sorridere ai poster-gig, ascoltare l’inudibile e ballare col danzabile.

Chi ogni tanto bazzica queste pagine non può prescindere, gusti musicali ed estetici a parte, di entrare in contatto… w i Crass!!!

|Mig|


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